di Francesca Falchi
Questo testo è un soliloquio ispirato ad un episodio della vita di Anita Garibaldi: episodio-simbolo reso eterno nella statua a lei dedicata ed eretta al Gianicolo, che la ritrae con una pistola in mano e un neonato in braccio.
Siamo nel settembre del 1840. Il 16 Anita dà alla luce il primogenito suo e di Garibaldi al quale verrà dato il nome di Domenico ma che i due chiameranno Menotti in onore del patriota modenese Ciro Menotti. Sono passati appena dodici giorni dal parto e Anita sfugge ad una nuova cattura da parte dei soldati imperiali. Questi, dopo aver circondato la sua casa e ucciso gli uomini che Garibaldi aveva lasciato a sua difesa cercano di farla prigioniera. Ma Anita, stretto a sé il neonato, riesce ad uscire dall’abitazione, salta in groppa al cavallo e si rifugia nel bosco. La sua abilità di amazzone e la sua capacità di reagire a qualunque situazione, la salvano ancora una volta. Senza viveri e con il neonato al petto Anita trascorre quattro giorni nel bosco finché non viene trovata da Garibaldi e dai suoi.
Non devo far rumore.
In questa notte
carica di terrore e fango
il bosco rivela le ombre dell’anima
i sussulti del cuore.
Tendo l’orecchio per cogliere la rottura di un ramo
il verso di un uccello che non dorme
perché percepisce che qualcosa di umano ha infranto l’equilibrio.
L’odore.
Il mio odore
potrebbe attirare orde di disperati che attendono sulla soglia di divorarmi
perché sono andata troppo oltre.
Disegni anneriti dei morti sul campo
le bocche squarciate nelle urla che invocano e implorano.
Tutto si confonde.
Mi sento roccia solitaria
che sull’orlo di un precipizio cui è aggrappata da secoli
teme che un temporale violento la faccia franare
e
schiantata al suolo
di lei restino solo frammenti.
Da invincibile a vinta.
Ma so che non è così
non può essere.
Non lo è mai stato né lo sarà.
Fermo i pensieri.
Ora.
Devo stare salda e nutrire l’attesa di speranza.
Verrà.
Lo so che verrà.
Il bambino dorme.
Il suo respiro tenue mi fa sentire al sicuro
Non piange.
il silenzio lo ha avvolto come una coperta confortevole
Non ha mangiato.
Il mio seno si sforza ma la paura ha seccato tutto.
Sì lo so non è da me.
O forse sì.
Ho paura di non rivedere i volti amici
le labbra amate
ho paura di non sentire più quelle grida che incitano alla vittoria anche quando tutto sembra perduto.
Ho paura di dimenticare essere dimenticata dimenticarmi.
Chi ero chi sono e chi sarò un giorno.
Tutto dovrà finire.
Quest’impeto che brucia e che mi rende straniera tra le mie simili
che straniera lo sono sempre stata.
Tu sei strana diceva mia madre.
Sei strana Ana strana.
Con quel tuo incedere sfacciata senza vergogna senza pudore
la pelle che ti veste mentre nuda ti fai avvolgere dal sale e dalle onde.
Non si addice ad una moglie ad una madre.
Perché quello sarai dovrai essere Ana
Dove vuoi andare con quella schiena dritta le labbra strette pronte a sfidare tutto e tutti.
Non puoi farlo non devi farlo.
Sii mansueta addomesticata docile.
L’irruenza lasciala agli uomini che sono padri e padroni.
Dove vuoi andare? Hai tutto qui.
Sei ventre e carne
la testa non serve
il cuore mettilo da parte
e all’anima beh all’anima ci pensa il Signore.
E se proprio continui in questo tuo voler essere strana ci penso io a renderti normale.
Avevo quattordici anni quando mi sono sposata.
E chi lo voleva un marito così
che sapeva di essere vivo solo perché riusciva a mettere un piede davanti all’altro.
Io volevo di più.
Volevo me stessa.
Libera di essere tutto
Essere ventre che accoglie e restituisce
braccio che costruisce e svetta
petto che nutre e sfida
dare la vita e toglierla.
Volevo il reale e l’ideale
Quel pover’uomo
fatto di cuoio e rassegnazione poteva solo spegnere e non alimentare
la fiamma che bruciava
che mi bruciava
che mi teneva sveglia la notte.
Perché io volevo essere tutto.
E poi quel giorno.
Dove quell’ardore è diventato incendio che non consuma ma illumina
In quel volto che mi conosceva senza avermi mai vista.
Che io ho riconosciuto senza averlo conosciuto prima.
E allora quel tutto è stato sempre
senza fermarsi senza indugiare.
Sembrava che il tempo non fosse mai abbastanza per contenere tutto quel noi che diventava loro per tornare ad essere noi.
Sempre uniti.
Sempre.
Anche adesso che stringo quel noi fatto carne e sangue
che sa di profondo e unico
che ci renderà eterni
quando anche la polvere si sarà dimenticata che un tempo l’avevamo calpestata pieni di sincerità e sogno
di ardimento e incoscienza.
È vuoto intorno.
Il nero mi inghiotte ma non mi sento perduta perché tu non mi perderai mai.
Mi ritroverai anche nell’assenza.
Anche nella morte.
Perché la mia grandezza l’ho costruita senza appoggiarmi alla tua.
Perché quello che sono è merito mio
e tu lo sai.
Tu che mi hai voluta al lato e non dietro
non a seguirti ma spesso a precederti.
Perché il nostro rincorrerci è rivoluzione
è sangue d’eroine e d’eroi
il sangue di chi come noi crede che la libertà sia ciò che ci rende umani.
Ho paura.
Non di dimenticare o di essere dimenticata
ma non di non poter essere più me stessa.
Io che sono tutto
che ho avuto tutto
perché me lo sono presa.
E tu non me l’hai mai chiesto indietro.